Giochicchio con il tappo della bottiglietta ruotandolo con le dita. Lo svito e lo riavvito meccanicamente, senza toglierlo mai del tutto. È piena solo per metà, come la mia vita da quando lei non c’è. Bevo un sorso affrettato, come se stessi buttando giù vodka liscia invece che acqua minerale. A tratti vorrei che lo fosse. Ma ho promesso di non berlo più, l’alcol. Ieri sera non è stato facile trattenermi dallo scendere al bar sotto casa. Stavo disteso sul letto, la stanza era buia. Era buia come quando mi sdraiavo alle tre del mattino dopo aver studiato come un ossesso per l’ennesimo esame, e lei apriva la porta socchiusa, e in calzini scivolava senza far rumore fino alla sponda del letto. Si sedeva sulle ginocchia, sopra le coperte, e mi guardava respirare. A volte pensavo che a piacimento potesse diventare invisibile. Me la trovavo accanto, che sorrideva senza farsi vedere. Era uno spettacolo recitato da dietro il sipario. Una stella che brilla da dietro le nuvole. Ma ieri sera lei non è entrata. Non mi ha appoggiato una mano sulla guancia, non si è sciolta la treccia, non mi ha detto sottovoce che le piaccio con poca barba. Ma la mia promessa io l’ho mantenuta lo stesso. Io mantengo sempre, sempre le promesse. Per questo ne faccio poche. Perché una volta legato, non so più liberarmi dei nodi. E a lei ne ho fatte tante, tante di promesse. Ho promesso che avrei tenuto questo taglio di capelli, che avrei concluso gli esami, che avrei accettato il passaggio di proprietà. E poi ho promesso di non bere. Una sera ero seduto al bancone. Ho ordinato un gin tonic. Faceva caldo, un caldo afoso, quasi opprimente. La gente parlava a voce alta, il locale era pieno. E ad ogni istante, il rumore della calca mi sembrava farsi più forte. Fino a paralizzarmi, a tapparmi le orecchie. La musica di sottofondo era come una lamentela pastosa, calpestata dai piedi scoordinati di un centinaio di ragazzi mezzi ubriachi. È stata la prima volta che mi sono reso conto di quanto siamo tutti inutilmente ripetitivi. Di quanto cerchiamo costantemente qualcosa che ci renda unici, ma alla fine, quando si tratta di fare scelte, non sappiamo crearci un modello nostro. Seguiamo lo stampo, come in fabbrica. Ma io studio giurisprudenza, e a lavorare in fabbrica da operaio non ci voglio finire. Mio padre in fabbrica c’è morto, e io non voglio fare la sua vita. Ballavano senza direzione né movimento, senza passione. Senza ritmo, romanticismo, prepotenza. Ballavano come se non l’avessero scelto loro, di ballare. Ballavano tutti con le stesse scarpe. Ma secondo me a ballare non ci si può andare con le Nike di tutti. A ballare ci si va con le nostre vere scarpe. Le scarpe che sogniamo di comprare da tutta la vita, quelle tutte colorate, quelle esageratamente alte, quelle esageratamente comode. Perché ballare è qualcosa di spontaneo, che viene dall’anima, e se metti le scarpe sbagliate poi non balli più. Barcolli, come tutto questo ammasso di gente ancora convinta che questo sia divertirsi. Ho pagato il gin tonic e ho fatto per andarmene. Ma nel girarmi verso la porta li ho visti. Un paio di leggiadrissimi sandali bianchi. Senza tacco, né rialzo. Sandali bianchi, semplici sandali, con due lacci che salivano intrecciandosi fino a metà polpaccio. E il vestito, anche quello era bianco. Un vestito che metterebbe soltanto chi luccica in silenzio, senza una gonna stretta, o corta, senza un grande scollo. Perché lei era così. Lei non aveva bisogno di nessuno che la guardasse. Non le serviva nessuno spettatore. Ballava anche da sola, davanti allo specchio, cantava anche senza base. Ballava anche scalza sul parquet, anche sul mio balcone. Ballava anche su di me, sul mio cuore ricucito. È stata quella la sera in cui l’ho conosciuta. Ero ubriaco. Ho spintonato tutti senza riserva finché non sono riuscito ad uscire. Lei camminava come se non avesse peso. Io camminavo come se lei fosse l’unica ragione per cui mi reggevo in piedi. Alla luce di un lampione l’ho fermata. Quando le ho messo la mano sulla spalla lei ha congiunto i piedi, si è spostata i capelli tutti da una parte e si è voltata verso di me. Ogni suo movimento ingenuo e trasparente sembrava un gioco. Ma quando l’ho guardata in viso, il suo sguardo non giocava. Aveva un livido sotto l’occhio destro e il collo rosso, il labbro spaccato. Mi ha osservato calma, con quei suoi occhi verdi glassati di luce artificiale. Ho cercato qualcosa da dire, ma avevo l’ultimo respiro bloccato in gola. Così sono rimasto fermo, come se confidassi nel fatto che l’alcol che avevo in circolo mi avrebbe suggerito le parole. Non mi chiese cosa volessi, né come mi chiamassi. Non mi chiese neanche di lasciarla in pace. Invece, mi domandò se mi facesse pena. Ho scosso la testa, ma mi sono sentito salire il vomito. Mi sono accasciato sul marciapiede, incapace per qualche istante di stare in piedi. Lei, invece di andarsene, si è seduta con me. Mi ha preso la mano e mi ha detto di chiudere gli occhi. Mi ha raccontato una storia. E quando poi ho rimesso a fuoco la strada, ho cercato subito il suo viso, e mi sono sentito uno stupido. Un ubriaco buttato in strada soccorso da una ragazza che era appena stata picchiata. Un impotente: avrei voluto aiutarla. E invece ho cominciato a piangere, a piangere forte davanti a lei, anche se non la conoscevo. E in quello stesso istante ho deciso che non avrei più bevuto. Mai più, per nessuna ragione. L’ho detto ad alta voce, gliel’ho giurato. È stata la prima cosa che le ho detto. Non avrei mai più voluto perdere la facoltà di proteggerla. Lei invece non ha pianto. È rimasta ferma con la mia mano in mano e in faccia i suoi lividi. Era bellissima. E non berrò nemmeno ora, nemmeno ora che lei non c’è, solo per sentirmi ancora un po’ il suo angelo custode. Per rifugiarmi nell’ultima goccia che mi è rimasta di lei. La bottiglietta è vuota, torno verso casa.

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