Sono un fantasma. O almeno, credo di esserlo. Nessun modo di dire, nessun gioco di parole: sono un fantasma per davvero. Ma non sono morta. Sono ancora qui, vivo, respiro. Vedo il mio corpo camminare per le strade, fra la gente, salutare tutti sorridendo teso, come se fosse sotto esame. E io lo osservo dall’alto, dall’aria. A volte mi fa pena. Senza di me è freddo, razionale. Non piange quasi mai: forse in fondo senza di me sta meglio. Non soffre, non si contorce, non si stringe più lo stomaco sotto la doccia. Non ride neanche. Non chiama i miei amici, non cerca più i miei genitori. È solo un involucro vuoto, un automa. E io non so bene cosa sono, senza di lui. Somiglio ad un fantasma: fluttuo. Non so se chiamarmi spirito, anima, vita. Per ora, fantasma andrà bene.

Osservare non è noioso come sembra, affatto. Sono un plasma denso e invisibile di emozioni, e assistere dall’esterno allo spettacolo del mondo è un continuo ballare fra gioia e dolore. Però il mio corpo mi manca. Solo ora che non l’ho più lo rimpiango. L’ho odiato così a lungo che ad una certa si è ribellato. Ma non mi sono ancora arresa: so che prima o poi troverò il modo di riaverlo.

Non faccio altro che pensare a quella sera. La sera in cui per la prima volta ho chiuso la bocca, in cui ho serrato dentro la mia voce. La stanza vorticava, la luce arancione non era più tranquilla da mesi. Sembrava un’eco, un ricordo. La fotografia di qualcosa che non eravamo più. Come se ci prendesse in giro, ci ridesse in faccia. Come se a tratti si vergognasse di illuminare una camera da letto così piena di grida e così priva di amore. Ricordo tutto: tutto di te. La vena sul collo, la fronte, i pugni chiusi. La camicia buttata, i capelli sgualciti perché c’avevi già passato le mani qualche migliaio di volte. È di me che ancora non so nulla. Quale eccesso mi ha reso allergica all’essere felice, e chi mai mi ha spaventato tanto da farmi disimparare a raccogliere da terra un amore e prendermene cura? E i nostri incompatibili sogni quando si sono illusi di poter dividere un letto, un viaggio, e un panino di fretta? Non mi riconosco.

Un fantasma non può guardarsi allo specchio: non si vede. Solo io posso toccarmi. Ma io posso: sento che esisto. E mi guardo mangiare con calma, pulire i piatti e risistemare le sedie, senza più l’angoscia o il peso addosso di essere me. Quello laggiù è solo un corpo. Non è più sotto pressione. Non si schifa più, non sente di dover essere all’altezza di un canone.

Quella sera, quell’ultima sera. Tu sei stato l’ultima cosa che ho visto con i miei occhi. Sei stato l’ultima emozione che ho sentito vibrare nel cuore, nel petto, in ogni fibra del mio essere, prima di essere sbattuta fuori casa mia. Prima di crollare del tutto, prima di odiarmi all’estremo e rifiutarmi una volta per sempre. Ho lasciato il mio corpo appena tu ti sei chiuso la porta alle spalle, dopo avermi detto “ciao”, lasciandomi sola con me. E forse tu, solo tu puoi richiamarmi là. A forza di guardarmi sprecare occasioni e sentirmi impotente, sto coltivando dentro una necessità atroce di rinascere. Io devo assolutamente tornare in me. Smettere di volare, girovagare in aria, farmi da angelo custode giudicando le mie scelte. Soppesare ogni grammo, goccia di pioggia o sospiro intristito ha smesso d’essere compito mio.

Sono le sette, e il mio corpo esce di casa. Lo rincorro. Mi domando se le persone possano sentirmi sulla pelle, un po’ come un alito di vento. Gli sto accanto, cerco di capire dove si stia dirigendo. Ma già lo so. Conosco quella strada troppo bene: l’ho percorsa di notte, di giorno, all’alba per farti duecentomila sorprese. Per dimostrarti che ti amo, così, in modo semplice. E anche se quel cervello che ancora mi giace nel cranio non sente più quella spinta, quel trasporto, i passi da compiere per tornare da te li ricorda ancora. Un po’ come quando rimane registrato un vecchio indirizzo nel navigatore.

Mi vedo chiudere gli occhi, respirare, toccarmi le mani. Sembro quasi agitata. È la prima emozione che mi vedo provare da quando non sono più in me. Evidentemente, qualcosa lì dentro mi ricorda ancora: si muove ancora, imitando le mie vecchie abitudini. Non mi sorprendo che la prima traccia di umanità che ritrovo sia un sintomo d’ansia, di agitazione. Ho sempre avuto paura. Ma quale paura più dolce e sincera esiste di quella di amare? Di quella di lasciarci scoprire un pezzo per volta, senza etichette, filtri o limiti? Sembro spaventata a morte. E per la prima volta, per la prima volta mi piace. Significa che sono ancora viva, che per me c’è ancora speranza di lasciare gli spalti e tornare a giocare.

Mi fermo davanti al cancello. È tutto esattamente come lo ricordavo: l’erba tagliata, una birra appoggiata fuori, per terra, così da raffreddarsi per cena. Non ti era mai piaciuto tenere le bevande in frigo, non so perché. Suono il campanello abbracciandomi la vita.

Si apre la porta, il cancello scatta. Lascio entrare il mio corpo, poi gli scivolo dietro. Gli sto attaccata. Tu compari sull’uscio, a braccia conserte. Sei rientrato dal lavoro almeno un’ora fa: indossi una maglietta di cotone, devi esserti già fatto la doccia. Avevo dimenticato quanto conoscessi bene ogni tua singola abitudine. Se fossi in me, probabilmente scoppierei a piangere o ti correrei incontro. Invece ti osservo, rimango ferma. Mi tendi un sorriso. “Ciao.”

“Hey.”

Per qualche istante temo che questo sia tutto ciò che abbiamo da dirci. Sento avvolgermi il panico, ma ha vita breve: il mio corpo compie un gesto inaspettato. Si siede sul selciato che porta dal cancello alla piccola villa. Giace lì, a gambe incrociate. Tu allora ti muovi, mi raggiungi a passi lenti. Ti siedi accanto a me.

“Sembri diversa.” mi dici. Mi sposto levitando, mi adagio sulle tue spalle anche se so che non puoi sentirmi. Vorrei urlarti che non lo sono, che sono ancora io. Che sono di nuovo al mondo, che respiro di nuovo, che sono pronta. Ma sono solo un fantasma, e non ho mani per abbracciarti. Osservi dolce i miei occhi verdi e confusi. La tua maglia sa di vaniglia.

Sento la mia voce porre la domanda. Quell’unica domanda che può decidere la mia salvezza: “Vuoi che resti?”

Sono terrorizzata dalla risposta che potrei ricevere. Comincio a tremare: mi sento debole, come se da un momento all’altro potessi scomparire. D’improvviso ho freddo, il mondo vortica. Forse sto morendo: forse Dio aveva dato un’ultima occasione di restare alla mia anima, ed io l’ho persa. Chissà se esiste il paradiso.

Forse è il momento di arrendersi, è il momento che mi lasci andare. Mentre la realtà si sfuoca, ti vedo che ti avvicini a me. Mi baci.

Tutt’a un tratto sento di nuovo le mie labbra.

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