Serve davvero stare immobili aspettando che passi tutto? Viaggio in macchina accanto ad un uomo. Lui non parla, ed io nemmeno. A volte mi guarda, mi guarda come se mi conoscesse. Ma la verità qual è? Nemmeno io mi conosco.

I miei occhi mi osservano placidi e opachi dal finestrino. Un ammasso di nuvole scure intristisce la campagna toscana. So dove andiamo, ma non lo ricordo. Lascio le cuffie nella borsa e il cellulare in tasca. Non ho paura di annoiarmi: temo solo che il viaggio duri troppo poco. L’auto viaggia troppo veloce, e ogni mia singola preghiera di trovare colonna è stata spintonata di nuovo quaggiù ancora prima di poter vedere il Paradiso. Ho tradito persino il mio angelo custode. È come se da un giorno all’altro, da un’ora all’altra, da un secondo all’altro, avessi deluso tutti. Dal primo all’ultimo, tutti quanti. Mi resta un tesserino d’iscrizione all’albo dei giornalisti, una cornice di legno vuota in valigia e il suo elastico nero a stringermi il polso.

Mi pongo sempre la stessa domanda, ad ogni curva della strada, ad ogni respiro: dove sto andando? La mia paura dell’ignoto va dissipandosi: non sento niente. Quante volte ho sognato questo momento da bambina. Il momento in cui finalmente avrei smesso di tremare di fronte a ciò che non conosco. Solo ora mi accorgo che forse era meglio tremare che restarmene immobile. Solo le vittime restano immobili, solo gli indecisi. Solo i deboli, quelli senza coraggio di camminare in una qualche direzione. Ed è questo ciò che faccio: lascio che qualcun altro guidi per me verso un paese di cui non so il nome, verso una provincia in un’altra regione, verso un servizio che mi è stato assegnato dal destino per farmi esplodere definitivamente la vita, più che dal mio capo per rimpiazzare un collega.

Ma una cosa l’ho imparata, come l’ha imparata chiunque altro scriva da sempre: non si scrive restando immobili. Non si scrive guardando la vita passare, come il telegiornale il lunedì sera. Il mio editore lo diceva sempre. Come puoi pensare che qualcuno abbia i brividi, o rida, o pianga di fronte a ciò che scrivi, se prima di scriverlo non hai rabbrividito, riso, o pianto? Sarebbe quasi presunzione. La convinzione di poter plasmare emozioni senza toccarle, senza passarci attraverso. Scrivere è il mio lavoro, ma non lo faccio per questo. Non l’ho mai fatto per questo. Non l’ho mai fatto per i soldi, per Marco, o per essere riconosciuta per strada. L’ho fatto per sopravvivenza. Ed è stato proprio questo a rovinare tutto. Quando scrivi per sopravvivenza, nessuno ha potere decisionale. Nessuno può dirti quali parole usare, nessuno può importi di calibrarle. Perché quando scrivi per respirare, non inseguire la tua metafora ti spezza il cuore. E invece di guarirti, ti trascina più a fondo.

Io amo Marco. Probabilmente lo farò per sempre. Ma avrei dovuto prevedere che sarei stata costretta a compromettere tutto. Quella dipendenza ora non poteva più essere legata ad un foglio di carta, o ad una pagina online. Forse a ventisette anni era giunto davvero il momento di legarmi a una persona vera. A una persona di anima e carne, a una persona che non avessi creato io. Sulla quale non avessi controllo.

Ma come per ogni artista che si definisca tale, anche per me il lato sbagliato delle cose ha un irresistibile fascino. Cosa esiste di più bello e calamitante da scrivere che una storia di buio e proibito? Nella vita si corrono dei rischi. Ma bisogna anche essere in grado di compiere delle scelte, e una volta compiute, di non cambiare idea. Invece io ho capito troppo tardi che un amore così grande non può farsi scalfire, se non dalla consapevolezza di essere messo in secondo piano.

Mi sono innamorata di Marco la prima volta che l’ho visto. E se solo l’avessi incontrato qualche mese prima, non avrei mai accettato che diventasse il mio editore. Pensavo sarebbe stato fattibile: che saremmo riusciti a separare la nostra relazione dal lavoro. Ma un editore non è un collega. Un editore è una guida, e quando la tua guida dice che sbagli e che devi cambiare strada se vuoi essere pubblicata, come lo volevo io, devi seguirla per forza. Ma io non sono mai riuscita a vederlo così a pieno. No, lui no. Lui era Marco, solo Marco, Marco dei film della domenica sera e delle passeggiate lungomare. Marco delle notti d’estate e delle scarpinate in montagna, Marco innamorato di Petrarca e Boccaccio. Marco innamorato di me. Siamo stati insieme due anni. E proprio ieri, è imploso tutto. Conto di pubblicare il mio secondo romanzo entro la fine dell’anno. Ma non è con questo fine che l’ho scritto: senza esorcizzare quella storia incredibile che mi era nata dentro una sera dell’ultimo autunno, non penso sarei nemmeno riuscita ad andare avanti con il mio lavoro di giornalista. Scrivo libri horror. Ne ho ancora di inediti, buttati giù da ragazzina, nascosti in qualche cartella. Lo faccio da sempre, come se incanalando in quelle pagine tutto il male che mi spaventa, esaurissi poi le forze di trovare agghiaccianti le paure della vita reale. Marco è un buon editore: senza di lui non avrei mai visto il mio primo romanzo nemmeno in una libreria. Ma questo era diverso. Questo mi serviva per mantenere il controllo, per esercitarmi a reggere la tensione. Per non lasciarmi spaventare, perché non è vero che quando cresci non temi più niente. E invece proprio lui, lui che mi aveva sempre tenuto le mani, me le ha lasciate facendo crollare tutto.

“Non si può fare. Non è in linea con quello che chiede il mercato di adesso. So che hai talento, ma io non posso portarti da alcuna parte con qualcosa di così emotivo.” Le ho ripetute nella mente così tante volte da averle imparate a memoria. Tre frasi che hanno cambiato tutto. Tre frasi che mi hanno fatto montare dentro così tanta rabbia da mandare all’aria tutti i miei progetti. Compreso quello che, fra sei o sette mesi, avrebbe dovuto essere il mio matrimonio. Ora non ho un fidanzato. Non ho un editore. Non ho un romanzo accettabile secondo il pubblico scontato che mi ritrovo. Ho solo accanto un partner di lavoro, che non parla e che odia la radio, e che non ho mai visto perché viene da Lecco.

Non mi sono mai sentita così. Come se avessi appena finito di leggere un libro indimenticabile, e per non doverlo chiudere per sempre mi fossi seduta sull’ultimo punto dopo la parola “fine”, con le gambe penzoloni nel bianco della pagina vuota. Da qualche minuto ha cominciato a piovere. Dietro il finestrino scivolano gocce lente. Non ho mai imparato a piangere. A piangere come fanno tutti, nascondendo la faccia nel cuscino. Cerco di incanalare tutto nella penna, o nelle mani che battono i tasti, e quando mantengo la calma, anche mentre piango, in poco tempo passa tutto, e il vuoto resta solo dentro. Finito di scrivere, torno ad essere felice. E quando ci penso mi viene quasi l’asma, quando penso che tutto questo non è normale. Quando penso che è quasi più grande il mondo che ho dentro che quello in cui vivo. E so che vorrei tanto, tanto qualcuno con cui dividerlo. Perché quando parlo, nella mia testa risuona la mia voce, e io ho sempre avuto paura dell’eco. Di qualcosa che rimbalza, che torna indietro senza un accenno di risposta. Voglio qualcuno con cui cantare. Voglio qualcuno che legga ciò che scrivo senza autorizzarsi a dirmi che cosa ne penserà la gente. Voglio qualcuno che mi legga solo per capirmi, solo per entrarmi dentro. Perché anche se non sto più con Marco da meno di ventiquattr’ore, forse ora capisco che mi sento sola da mesi. E ammiro quelle persone che riescono a riempirsi. Le ammiro tanto, ma io non sono così. Non ho mai avuto qualcuno che mi dicesse che va bene tutto, anche le paure che ho. Che va bene tutto, anche starsene immobili, qualche volta. Qualcuno che dopo avermi lasciata con le gambe nel vuoto, a mezzo respiro dalla fine, mi tenda la mano e con l’altra mi mostri una nuova storia da cominciare.

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