“Selfcare”. Un termine inglese che alle orecchie di tutti suona giovane, nuovo, e forse per alcuni anche un po’ scontato. “Selfcare”, letteralmente significa “cura di sé”: un concetto che appare così ovvio, e che allo stesso tempo quasi nessuno riesce a integrare completamente nella propria vita.

Pochi sanno che in realtà quella della cura di sé è una tematica antichissima. Popoli quali i greci, gli egizi, i cinesi, i giapponesi, e persino i romani erano molto più avanti di noi in questo. Uno fra i primi filosofi a sottolinearne l’importanza è noto a tutti: Socrate, il cui pensiero è giunto fino a noi grazie agli scritti di Platone. Socrate infatti sostiene che per curare un male non sia sufficiente dedicarsi alla guarigione del corpo, ma sia necessaria anche quella dell’anima. In particolare, Socrate dedica un’attenzione particolare al concetto di autoconsapevolezza. “Conosci te stesso”, anche questa una massima nota a molti.

Non dei corpi dovete prendervi cura, né delle ricchezze né di alcun’altra cosa prima e con maggiore impegno che dell’anima, in modo che diventi buona il più possibile […]. La virtù non nasce dalle ricchezze, ma dalla virtù stessa nascono le ricchezze e tutti gli altri beni per gli uomini, in privato e in pubblico.

Cosa significa quindi prendersi cura di sé? Come Socrate ci insegna, la cura di sé non riguarda solo il corpo. Riguarda soprattutto quella che Socrate definisce l’anima, e che in tempi più moderni si riflette in sfere quali la mente e le emozioni. Queste tre componenti, corpo, mente e emotività, insieme costituiscono la globalità psicofisica della quale prendersi cura per raggiungere la pace, per costruire un rapporto benefico con la persona che siamo, senza spendere più energie in inutili ed interminabili guerre che ci logorano dall’interno.

Nella vita di tutti i giorni, questo può significare molte cose. Smettere di sentirsi in colpa per la fetta di torta mangiata, decidere di interrompere una relazione che non ci fa bene, iscriversi a yoga o tornare a leggere dopo anni a ripetersi “vorrei, ma non ho tempo”. È qualcosa di molto personale: per questo spesso risulta così difficile cominciare. A volte siamo così presi dalla vita e dai mille impegni che per tanto tempo ci dimentichiamo di chiederci cosa vorremmo.

Purtroppo per noi però, non c’è una formula universale, che va bene per tutti. Una mia espressione d’amore per qualcun altro può rappresentare la più struggente forma d’odio. Per esempio, andare in palestra. Per me andare in palestra è una forma di amore. È un momento in cui mi dedico al mio corpo, in cui mi sfogo, in cui finalmente smetto di pensar a tutto ciò che mi circonda e che mi crea tensione. Ma per qualcun altro può essere un’ossessione. L’ossessione di voler dimagrire, di cambiare in modo non sano. Per qualcuno la palestra può rappresentare il bisogno incessante di muoversi per meritarsi il cibo.

Per questo non esiste una ricetta per la cura di sé. E in alcuni casi la ricerca può risultare lunga, faticosa, infruttuosa. Ma per quella che è la mia esperienza, credo ci siano dei punti chiave da cui tutti possono partire. E questi punti non sono affatto azioni, non sono gesti. Sono presupposti mentali.

Il primo è cominciare a fermarsi e chiedersi: “quello che sto facendo mi fa stare bene?” oppure “questa persona a cui sto dedicando il mio tempo, lo merita?”. E se la risposta è “sì”, cominciamo già a renderci conto di ciò che dà un contributo positivo alla nostra vita. Sembra qualcosa di banale, ma io sono fermamente convinta che la maggior parte delle persone non si pongano mai queste domande. E di conseguenza, non diventino mai consapevoli dell’impatto che ciò che li circonda ha sul loro umore e, a lungo andare, sulla loro salute mentale.

E se la risposta fosse “no”? Se capissi che ciò che faccio o chi frequento non mi stimola, non mi rende felice?
Probabilmente nella vita di ciascuno di noi ci sono molti “no”. Forse ci sono più “no” che “sì”. Ciò che è da fare, quando la risposta è “no”, è innanzitutto chiederci se possiamo cambiare qualcosa. Un amico che non ci fa bene si può frequentare meno. Un drink di troppo si può rifiutare. Se guardare ogni giorno il telegiornale ci crea solo ansia e pessimismo, si può non guardarlo.

Ma ovviamente, in molte situazioni si può cambiare ben poco. Non si può cambiare datore di lavoro, né professori, non si può smettere di frequentare i parenti (a meno che davvero, siano casi eccezionali), e a volte anche cambiare qualcosa nel nostro stile di vita individuale può essere davvero difficile. A questo punto, credo sia fondamentale cercare quanto meno di alleviare il malessere causato da ciò che abbiamo identificato come “nocivo”. Ad esempio focalizzandoci su qualcosa di rilassante che potremmo fare dopo quella cosa, o provando a pensare a quali insegnamenti positivi potremmo ricavare da quella cattiva esperienza.

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