Una manciata di minuti e sarò polvere.
Eppure sorrido.
Trascinerò con me all’inferno il cuore ansimante di questo paese in agonia.
Ebbene sì: sto per morire. Esamino la sala ancora una volta: la osservo con familiarità, come ormai fosse una vecchia amica. Sarò l’ultima persona a vedere queste poltrone rosso carminio, l’ultima a divagare con lo sguardo fra i rilievi dorati. Mi siedo in prima fila, cerco di mettermi comodo, un po’ come se stessi per assistere all’ennesima opera. Nell’ultimo anno ne avrò viste almeno venti: ce ne vuole di tempo per architettare alla perfezione un piano tanto complesso, e senza entrare non avrei avuto modo di approfondire i miei studi nei minimi dettagli. I miei occhi si impigliano fra le foglie d’acanto dei capitelli corinzi. Sì: perderle per l’intera Italia, ma che dico, per l’intero mondo sarà un colpo dal quale faticherà a riprendersi. Tremeranno le leggi, le mani dei tiranni, le istituzioni. I governi saranno attaccabili, senza strumenti, senza difese, senza speranze.
Pensare a ciò a cui miro mi aiuta a distrarmi: anch’io ho paura di lasciare questo mondo. Cerco di mantenere la calma; respiro una, due, tre volte. Il pensiero del buio mi logora dentro.
Controllo l’orologio: le tre e ventisei di mattina. Allo scoccare delle tre e trentatré sarà tutto finito.
Mi bussa alla mente una lezione d’epica del liceo. Ho ancora impresso il volto del professor Ferrari mentre parlava, accarezzandosi la folta barba grigia. “Nei poemi gli eroi greci, nell’istante prima di esalare l’ultimo respiro, vedevano il futuro e lo predicevano ai compagni per aiutarli. Penso sia indicativo: nella storia antica la gente credeva ancora nelle svolte. In un cambiamento radicale, in una vita migliore. Persino prima di andarsene riuscivano a guardare avanti.” Così spiegava.
Sono convinto che al giorno d’oggi, quando si sa che ormai si è alla fine, si pensi alla vita trascorsa.
Rimorsi.
Rimpianti.
Scelte mai prese.
Errori.
Cadute.
Ci si guarda indietro. Ci si disinteressa alla speranza. E anch’io vengo trascinato nel vortice del mio passato, arrestato proprio da quella parola, speranza: un’ancora che mi frena nel giorno più importante della mia giovinezza.
Spingo il maniglione rosso e la porta si apre. Lascio che si richiuda alle mie spalle, corro, scendo i gradini saltandone uno su due. Mi affretto a dirigermi verso il parcheggio, lo stesso in cui per i primi quattro anni avevo lasciato la bici, e in cui adesso riposa la mia Alfa Romeo 147 nuova di zecca. Metto in moto, imbocco la statale. Non mi guardo più indietro, tengo le mani salde sul volante. Quella scuola d’ora in poi sarà solo un lontano ricordo. Non m’importa neppure del voto che ho preso. E dire che quando sono entrato al Giosuè Carducci ero davvero convinto che lì la mia vita sarebbe cambiata. Immaginavo di proseguire gli studi, di entrare in un’università prestigiosa con voti stellari, e chissà, magari sarei diventato professore. È vero: il liceo classico mi ha stravolto l’esistenza. Ma nella direzione opposta a quella che mi ero prefissato. Controllo l’ora. È l’una e trentacinque; l’imbarco è previsto per le quattro. Di solito non sono meno di venti i minuti di viaggio da qui a Linate: sarà meglio sbrigarsi. Eppure non ho fretta, non ho ansia. Mi sento semplicemente libero. Finalmente fuori dalla prigione. Tutti quelli che conoscevo, al tempo che mi iscrissi al mio primo anno, mi dissero che la scuola che avevo scelto apriva la mente. Gettava luce sulle mie origini, sulla lingua che parlo, sulle tradizioni che rispetto. Per carità, tutto vero. Ma per me è stato l’opposto. Ha riplasmato il mio sguardo sulle persone. Ora comprendo perché il mondo stia lentamente andando in pezzi, senza che anima viva muova un dito per rimetterli insieme. Sono tutti con le mani legate da questi schemi, da questi modi di fare. Non possono riscoprirsi, reinventarsi. Ci insegnano che ogni parola del vocabolario italiano che si rispetti, deriva dal greco o dal latino. Ci guardano male quando noi giovani usiamo parole impure, che vengono dall’inglese, o che mischiano più lingue. La creatività è vietata. È vietata persino quando scrivi. Sei libero di esprimere ciò che senti finché segui le regole. Pensano di poter stabilire il mio modo di raccontare cosa provo. E se io fossi stanco di tutto questo? Nessuno può comandare i miei sentimenti. Ho diritto di provare delle emozioni, e più di tutto ho diritto di urlarle al mondo nel modo che voglio. È per questo che parto. Perché in tutto quel trambusto di lezioni che altro non facevano che impormi margini, ne ho trovata una potente da spezzarli tutti.
Torno in me. Chiudo gli occhi, scuoto la testa. Guardo il palco, deserto. Studio il sipario calato. Proprio qui, in questo luogo che ha sentito echeggiare le voci dei cantanti lirici migliori al mondo, adesso regna un silenzio tombale. Quasi mi spaventa: lascia spazio solo al ticchettio della bomba a orologeria piazzata nell’area dedicata all’orchestra. Cerco inutilmente la calma. È vero: potrei andarmene e lasciar esplodere il Teatro la Scala nella sua solitudine. Eppure penso: cos’ho là fuori che mi aspetta? La galera. Di nuovo sbarre, di nuovo limiti. E io sono stufo, stufissimo e arcistufo. Preferisco morire senza che nessuno me lo imponga, nemmeno Dio. La mia morte sarà un regalo per la mia società, la FlashForward, che sicuramente saprà come sfruttarla; ma soprattutto sarà un dono a me stesso. Sarà la seconda decisione che avrò preso io, senza che nessuno mi abbia prima imboccato con un omogenizzato di regole e divieti. E ancora una volta torno indietro, in cerca della mia prima scelta, quella che segnò la mia rinascita.
“Buongiorno, mi chiamo Mirko Villa. Sono la nuova recluta.”
Guardo la porticina di legno consumato. Nessuno sospetterebbe mai che questa possa essere l’entrata della sede della società che cambierà il mondo. Dal citofono esce una voce metallica.
“Parola d’ordine che le è stata indicata?”
Mi schiarisco la voce.
“La parola d’ordine è un limite per chi desidera entrare.”
“Corretto. Attenda, le apro.”
Abbasso il capo per non sbattere. Percorro velocemente il corridoio buio, senza badare allo scricchiolio fastidioso delle assi: ne trovo un altro trasversale, stavolta con il pavimento in pietra. Mi ripeto il tragitto: destra, su per le scale, primo ufficio sulla sinistra. Mi affretto. Gente come questa non va fatta aspettare. Anche la gradinata è in pietra: ricorda vagamente quelle dei castelli medievali. Stretta, sporca. Nuovo portone, stavolta a sbarrare il passaggio attraverso un arco a tutto sesto. Come previsto, a destra sta uno schermo touchscreen. Estraggo il cellulare per controllare nelle note: non ho mai avuto buona memoria per i PIN.
Riporto con attenzione: 4-5-0-1-2-9-9-2-4.
Sento un segnale elettronico dall’altra parte. Un “clac” sblocca la porta blindata; la spingo e attraverso il passaggio che mi si apre davanti. Mi trovo davanti un ragazzino moro dai capelli scompigliati; avrà al massimo dodici anni. Una lunga cicatrice gli percorre la guancia. Mi fissa con i suoi occhi neri.
“Te sei Mirko Villa? Il tipo nuovo?” mi indica con arroganza.
“Sono io.”
“Spicciati, t’aspetta il boss.”
Annuisco. Già non lo sopporto, ma mando giù. Nonostante all’inizio sembrasse tutto fuorché una sede innovativa, mi trovo a contraddirmi. Dietro l’arcata in pietra di arenaria si apre un nuovo corridoio, e sebbene sia immerso nella penombra colgo immediatamente il salto di qualità: è assolutamente moderno. Pareti di un bianco avorio impeccabile, porte degli uffici nere con il nome della funzione scritto in corsivo a caratteri argentati. Busso alla porta del primo sulla sinistra.
“Entra.” Una voce come una bastonata. Una di quelle che ti fanno balzare in aria e ti costringono a darti una mossa. Abbasso la maniglia di metallo freddo ed entro. Non esordisco con nessun ‘buongiorno’, nessun ‘eccomi’, nessuno ‘scusi il ritardo ’. Prendo semplicemente posto sulla sedia girevole e intreccio le dita sulla scrivania. Da dietro la mia cartellina mi scruta un uomo dal volto scavato e i capelli biondo cenere.
“Perché vuoi entrare alla FlashForward?” Il bastone diventa una lama. Parole che si insidiano sotto la pelle, cercano, rodono la carne, fino a scovare le incertezze e a riportarle in superficie.
“Ho concluso ieri la maturità in un liceo classico di Milano. Sa cos’ho imparato in cinque anni? Ad eseguire degli ordini. Ordini che, peraltro, mi impartivano riguardo a come dovessi essere. Sono stanco delle squadrature, delle righe sui fogli protocollo. Voglio un mondo che ricominci da zero, senza opere di maestri venerati come dèi a insegnarci come dobbiamo fare.”
Pianto gli occhi nei suoi, incrocio le braccia al petto. Lui annuisce.
“Futurismo. Un movimento che sogna un mondo nuovo, libero dall’antichità e dalle sue lezioncine tradizionaliste. Noi saremo i padri di una società più veloce, più avanzata. E siamo disposti a tutto, anche a distruggere con violenza gli ostacoli che si frappongono tra noi e il nostro ideale. È questo che cercavi: seguivamo da tempo le tue ricerche, e abbiamo visto che si dirottavano su indirizzi sempre più specifici riguardanti i nostri temi. Così abbiamo deciso di contattarti. Ebbene sì, la corrente del futurismo non è morta. La FlashForward ne è il massimo esponente.”
Lo sapevo. Io lo sapevo.
Il boss riprende la parola.
“Prima riunione martedì sera, ore 22.30. Ufficio Riunioni 36c. Se cerchi un lavoro di copertura, ho un amico a Palermo, che a sua volta indirizza tutti i miei raccomandati. Chiedi in giro di Salvatore Randazzo.”
Mi porge un biglietto da visita. Leggo velocemente. “Mirko Villa. Raccomandato della FlashForward.” Segue un numero di telefono e il logo azzurro della società.
Annuisco, gli stringo la mano. Qui comincia la mia nuova vita.
Quante cose sono cambiate, da quel lontano giorno di giugno. Giovani, decisi a prendere a calci le istituzioni e costruirci il mondo che volevamo. Il boss aveva solo quattro anni più di me. In qualche mese siamo diventati come fratelli: vivevamo addirittura insieme, in un attico di una casa in periferia. Al contrario di me però, lui non lavorava. Rubava. Sospetto che alcuni furti li architettasse con l’appoggio della mafia: nessun uomo poteva essere tanto abile agendo da solo. Morì dieci anni fa, che ne aveva solo trenta, trapassato dal proiettile di un poliziotto che l’aveva pedinato per sventare l’ennesima rapina. A volte sento ancora le fitte allo stomaco se ci penso.
E tra poco toccherà a me. Lo raggiungerò all’inferno: è lì che finiscono quelli come noi.
Non sarebbe fiero della paura che sta prendendo il controllo su di me.
Nonostante ciò, so che sorriderebbe pensando che finalmente tutti i nostri calcoli, i nostri infiltrati in politica, i nostri viaggi fin negli Stati Uniti per ottenere i giusti contatti, stanno per dare il via al caos più totale.
Le tre e ventinove. Il ticchettio persiste.
Sul bracciolo della poltrona il mio cellulare si illumina. Sento una morsa allo stomaco. Il suo nome compare sullo sfondo verde, sopra l’icona per rispondere. Emma.
Se qualcuno mi chiedesse se sono innamorato risponderei di no. Uno come me non può innamorarsi. Non è concesso. Forse è l’unico margine di cui non ho voluto liberarmi. Se però affermassero che, guardandomi negli occhi, non esista dubbio che io sia innamorato, sarei sicuro di essere innamorato di lei. Ma non lo ammetto, non ci riesco. Perché se ammettessi di amarla dovrei pentirmi di ogni istante passato con lei, e soffrirei troppo, e non posso permettermelo. Non posso. Lei era la donna del boss. Perfetta: capelli corvini, occhi turchesi, sorriso smagliante. E in qualche modo, dopo che lui morì, io sentii che dovevo starle accanto. E non riuscii più a farne a meno.
Ripenso a ieri sera.
Ogni volta che sono con lei riesco a immaginare una vita che funzioni. Che funzioni davvero, anche senza sconvolgere il mondo. Anche senza bomba a orologeria al Teatro La Scala. Anche senza suicidio. Eppure penso che se non mi uccidessi solo per avere lei, ancora una volta avrei sbagliato. Lei non è, non potrà mai essere la mia donna. Lei sarà sempre la ragazza che io ho ottenuto sfruttando la situazione. Non sarà mai davvero mia. Eppure è così bella. La guardo accovacciata sul divano, mentre con il dito scorre lo schermo del cellulare. Di tanto in tanto lancia occhiate distratte al TG1. La frangetta spettinata, i piedi scalzi. Quasi non ci credo che non la rivedrò più. Sa benissimo che un giorno di questi avrei dovuto portare a termine il colpo. Ma non sa che è oggi. E non sa che non tornerò.
“Ti va un bicchiere di vino?” le chiedo mentre già lo sto versando. Annuisce.
“Ma sì, certo.”
Mi costa fare ciò che sto facendo, ma non ho scelta. Non posso correre il rischio che si svegli, che mi scopra, che mi fermi. Lascio che la polverina bianca si sciolga nel suo bicchiere. Dovrebbe fare effetto in un’ora.
“Tieni.” Lei lo regge con le sue dita gracili, le unghie smaltate di nero.
“A cosa brindiamo?”
“A te.”
Il cellulare sta ancora squillando. Sì, l’ho drogata. Infatti mi stupisce che sia cosciente. Non so resistere alla tentazione di sentire la sua voce ancora un’ultima volta. Prima di portare il cellulare all’orecchio scorgo l’orario in alto a sinistra, che scatta segnando le tre e trenta.
I miei ultimi tre minuti di vita.
“Emma?”
“So cosa mi hai fatto. Lo sapevo già ieri sera. T’ho visto mentre la mettevi nel bicchiere. Ne ho bevuto un sorso solo, poi se ricordi ho cominciato a baciarti, ma l’ho fatto apposta. Ti saresti scordato che non avevo vuotato nemmeno mezzo.”
Parla velocissimamente, sembra nervosa. Io resto zitto.
“L’attentato è oggi. So che sei lì. È che ho avuto paura che qualcosa andasse storto, e prima che accadesse volevo dirtelo.”
Manca poco. Ormai non la sto più nemmeno ascoltando. La sua voce sarà l’ultimo suono che udirò prima dell’esplosione. Mi convinco che per quella voce non vale la pena vivere.
“Quello che è successo…un…un mese fa… Eravamo ubriachi ma ce lo ricordiamo benissimo entrambi…”
Le trema la voce, a me le gambe.
“Mirko… io aspetto un figlio.”
Ed è come se il teatro già fosse esploso. Il mio tempo non è ancora arrivato, ma dentro di me è già il caos più totale. Un figlio.
Prima di proibirmi d’innamorarmi avevo desiderato un figlio. Poi realizzo: mio figlio sarebbe cresciuto senza padre. Un bambino perduto. Un bambino vittima degli schemi, dei margini, dei quadretti nei quaderni.
“Emma, tra due minuti qui salta tutto. Me compreso.”
La sento scoppiare a piangere.
“No…no…esci di lì, subito, esci…noi scapperemo non ci prenderanno, Mirko, esci!”
Scuoto la testa. È fisicamente impossibile.
Immagino un bambino con i miei occhi, verdi, e con i suoi capelli lisci e neri. Sorrido.
Davvero per essere felice mi serve l’anarchia, la confusione, il disordine più totale? Davvero mi serve imporre le mie idee sugli altri? Proprio come ho tanto odiato che gli altri facessero con me? Il futurismo è veramente la soluzione?
Davvero non mi basterebbe una famiglia, per continuare a vivere?
E dentro sento di avere già tutte le risposte che mi servono.
Abbandono il cellulare. Ancora una volta vedo scattare l’orario. Tre e trentadue.
Se Dio non mi perdona, tra sessanta secondi sarò morto.
Scatto. Devo uscire dalla platea. Inciampo. Mi rialzo gettandomi di nuovo in avanti.
Cinquanta secondi.
Mi lancio giù scavalcando il balconcino, cado nello spazio dell’orchestra.
Un dolore lancinante. La caviglia. Mi sfugge un urlo, stringo i denti.
Quaranta.
Lo sforzo più grande che io abbia mai fatto. Ignoro il male che m’infila i suoi artigli nel tendine. Mi alzo. Trovare il coraggio di muovere un passo o morire.
Trenta.
Arranco verso l’altro lato. Gemo. Tutto il mio corpo trema. Mi trascino sul pavimento con le mani, non riesco a stare in piedi. Il fuoco alla caviglia mi addenta i muscoli della gamba.
Venti. Forse quindici.
Un pensiero disperato mi trafigge l’anima. Voglio vivere, a tutti i costi. Nel percorrere strisciando gli ultimi due metri sto piangendo.
Il ticchettio mi rimbomba nelle orecchie, sussurro del mio angelo della morte.
Lo sento alzare la voce. Sono gli ultimi dieci secondi.
Mi lancio sulla bomba. Cinque. La spia diventa rossa.
Le mie dita viaggiano da sole, digitano il codice.
Due.
Scorrono verso l’alto con il tasto.
Uno.
Abbraccio l’arma del mio suicidio, consapevole che ormai è scoccato lo zero.
Zero.
Sono ancora vivo.