È grande e gialla.

Ogni piano ha una porta sulla quale campeggia la stessa scritta.

NON FORZARE L’APERTURA

ACCESSO NEGATO AI MINORENNI DI TIPO T

IN CASO DI SMARRIMENTO DELLA CHIAVE ALL’INTERNO DELLA STRUTTURA,

RECARSI IN PRESIDENZA.

La setaccio con gli occhi più e più volte. Tra due ore scoprirò cosa la società nasconda così ostinatamente ai suoi figli più piccoli. Essere Minorenni di tipo T significa avere meno di tredici anni, e non essere ancora stati sottoposti all’Iniziazione. E a mezzogiorno di oggi, 17 gennaio, data in cui cade il mio tredicesimo compleanno, io scoprirò in cosa consista la mia.

Nessuno mi ha mai detto come stiano davvero le cose. Le porte non ci sono solo a scuola. Sono anche per strada: sembrano cabine telefoniche gialle e oscurate, e al loro interno non so cosa ci sia. Ne ha una anche ogni casa, ogni ufficio, ogni palestra. Ma io non muoio dalla voglia di entrare nel mondo dei grandi, non mi sento vibrare dall’impazienza di non sentirmi più esclusa. Voglio solo delle spiegazioni, perché odio sentirmi nel torto e nell’ignoranza. Desidero soltanto capire. Null’altro: non credo che, quando ne avrò la possibilità, userò le porte. Non voglio diventare come loro. Loro sono strani: strani tutti allo stesso modo, senza essere originali, colorati, stravaganti. Sembrano sempre così concentrati.

Qualcuno mi salta addosso stringendomi da dietro le braccia al collo. E so benissimo che esiste una sola persona che si diverte a spaventarmi così.

“Astrid! Hai finito di osservare quella porta come se potessi carpirne in anticipo i segreti?”

“Non so perché, Inn, ma non mi attrae per niente questa roba che stanno per dirmi.”

Inn è la mia migliore amica. Si pettina dietro le orecchie i capelli chiarissimi e mi saltella attorno. Spesso vorrei scambiare il mio pessimismo con la sua energia.

“Non importa! C’è tua madre in segreteria, ti sta aspettando, devi correre a casa a prepararti.”

“Non voglio nasconderti quello che sto per scoprire…”

“Ce la faremo. Sono solo due mesi, giusto? Poi ci avventuriamo insieme dietro tutte le porte, e a questi cartelli ci sputiamo sopra, che dici?”

Io annuisco convinta e mi lascio trascinare verso l’atrio. Le pareti di tutta la scuola sono spoglie, l’intonaco sporco e raggrinzito. Ragazzi e ragazze in divisa grigia e blu si accalcano lungo tutto il corridoio. Lamentele sulle lezioni e commenti indifferenti si confondono in un unico, greve gorgoglio.

Vedo mia madre in piedi all’ingresso, nel suo completo d’ufficio color cenere. Stringo forte la mano di Inn prima di lasciarla andare. Non sono emozionata, ho solo paura. Lei mi prende le spalle. “Andrà tutto bene. Tu non diventerai mai come loro.”

“Okay.” Tendo un sorriso incerto.

“Dillo.”

“Cosa?”

“Che andrà tutto bene.”

Sospiro fra il divertito e l’esasperato. Le è sempre importato solo di difendermi. Lei non si fa mettere i piedi in testa, e non le importa di non avere la simpatia di tutti. E vuole che per me sia lo stesso, che non perda mai fiducia in me stessa. Io dal canto mio non credo di averne mai avuta. Eppure ogni volta lei ne ripone in me altra, come se ne avesse una scorta infinita.

“Andrà tutto bene.” Ripeto. “E se riesci a non essere strana nel farlo, saluta Alexis da parte mia.”

Mi volto e vado svelta verso mia madre. Lei mi saluta con un sorriso e mi fa cenno di seguirla mentre esce. “Prendiamo la macchina, andiamo a casa, voli in camera a toglierti la divisa di scuola. Poi vieni da me in intimo e capelli sciolti. Tutto chiaro?”

Parla come se questo stupido rituale fosse l’evento della mia vita, ma nemmeno lei sembra eccitata. Mi riporta solo azioni consequenziali da compiere per arrivare perfetta. Un nuovo clone al quale tutti sorrideranno e stringeranno la mano, accolto finalmente come debuttante in società.

“Chiaro, mamma.”

Trascorro ogni singolo istante di viaggio in macchina ad osservare la strada. Gli edifici non sono fitti come nelle grandi città, non si accatastano fra loro. Le fabbriche hanno i loro spazi, così come i negozi, i condomini, le ville a schiera. Ma l’erba dei giardini è gialla come la porta a scuola, e da molti comignoli esce un fumo grigio che nel giro di qualche istante non si scorge più. Si mescola all’aria ferma e sale, come fosse figlio delle nuvole immense che oscurano il cielo, e finalmente tornasse a casa.

Appena arriviamo mi affretto a spogliarmi.

“Vieni, tesoro.” Mi chiama mia madre dalla camera da letto. Apre l’armadio ed estrae un vestito. “Indossalo.”

Io non protesto. Non cerco di capire se il color crema pasticcera possa anche solo intonarsi vagamente ai miei capelli rossi e agli occhi castani. Non mi importa minimamente di essere bella. Tutto mi scivolerà addosso, e l’unica cosa che conterà è che, al termine di questo fatidico 17 gennaio, io sarò un’adulta libera di rinnegare la società in cui è cresciuta.

Le maniche sono ruvide, e sulla parte inferiore dell’avambraccio destro c’è un buco. Non credo sia un difetto di fabbrica, ma ho paura di domandare a cosa serva. Tutto mi sembra stretto e scomodo.

Abitiamo proprio di fronte al Comune: è lì che tutti i giovani del paese diventano grandi. Attraverso la strada con le ballerine gialle che mi torturano i piedi. L’edificio è anonimo, e porta la bandiera grigia e blu della provincia. Le finestre sono opache, i corridoi vuoti: l’unica anima in cui ci siamo imbattuti è la segretaria al bancone d’ingresso. Mi ha pinzato un cartellino sul vestito. “Astrid Pettersson. – K1342C”.

Ci siamo: “Ufficio d’accettazione Minorenni di tipo T.” Pochi minuti dopo vengo chiamata ad entrare.

Faccio il mio ingresso nella stanza da sola, e trovo in piedi ad aspettarmi un uomo alto e molto magro. Le pareti e il soffitto sono completamente bianchi. Non un segno, non una macchia. Non ci sono né mobili, né oggetti. Solo una sedia e una porta sul lato opposto, gialla.

“Benvenuta, signorina Pettersson. Prendi posto.” Io obbedisco.

“Come decretato dalla legge, nel giorno del tuo tredicesimo compleanno ti spetta farti carico di alcune conoscenze e responsabilità. Ti chiedo di lasciarmi parlare senza interrompermi, e se alla fine avrai domande, ti sarà concesso porle.” Io annuisco.

“Benissimo. Partiamo dal principio: esiste un mondo, sotto ai nostri piedi. A circa cinquecento metri di profondità nel sottosuolo, si sviluppa un’immensa e fitta rete di corridoi. Questa rete è diffusa in tutto il mondo, corre sotto ad ogni stato. Essa è stata creata servendosi di una tecnologia rivoluzionaria: ci si può spostare velocissimamente da una parte all’altra del globo grazie a porte che funzionano proprio come quella che vedi laggiù. Dietro quella porta, troverai una cabina simile ad un ascensore, che in qualche istante ti calerà per la prima volta all’interno della rete. In rete puoi trovare di tutto. Ci sono sale aperte a chiunque nel mondo, in cui si tengono riunioni, congressi, conferenze. Ce ne sono altre invece che sono private, e per entrarci devi ottenere il consenso del proprietario. Tu stessa, se vorrai, potrai diventare proprietaria di alcune stanze. Ne potrai creare alcune che parlano di te, di come sei, quello che fai, così da farti conoscere a chi entra nel tuo Sito. Così si chiamano, le stanze. Puoi crearne una unicamente dedicata a qualche tua idea, o nella quale puoi incontrarti con amici e sconosciuti. Come trovare le stanze che cerchi te lo spiegherò quando scenderemo. Domande finora?”

Scuoto la testa.

“Procediamo. Il nome di questa rete è Internet, e rende la comunicazione facile e immediata. Tutte le informazioni di cui sei in possesso devono rimanere rigorosamente segrete ai Minorenni. Fra poco ti consegnerò una copia della chiave che apre le porte, e ti assocerò al sistema di controllo.”

Viene verso di me e mi prende il braccio con la manica bucata. Mi mette al polso un braccialetto con una chiave gialla. Poi estrae dalla tasca una piccola busta, e toglie un minuscolo pezzetto di metallo. “Questo è un registratore magnetico. Reagisce se allontani la chiave dal polso, e percepisce le tue parole nel caso in cui divulgassi i segreti di Internet ad un Minorenne. Se infrangi le regole della rete, tu e le persone coinvolte verrete per sempre esclusi dal sistema, e in base alla gravità del reato corrisponde spesso anche un’ulteriore pena.” Mi spinge il registratore nella carne. Sotto è appuntito, la sensazione è quella di tante piccole punture. Quando toglie la mano dal mio braccio, quell’affarino non si muove più. È agganciato: ormai è parte di me.

“Seguimi.” Toglie di tasca la sua chiave. Apre. Attraversiamo l’uscio. Per la prima volta in vita mia, mi trovo oltre la porta. Chiudo gli occhi e inspiro a fondo: l’ascensore comincia a precipitare. Mi sforzo di non mostrare che ho paura: odio sentirmi debole.

Ci ritroviamo in un corridoio ampio e luminoso. Il soffitto è alto, e la parete di fronte a noi ospita una quantità incredibile di schermi, allineati uno accanto all’altro all’altezza dei miei occhi. Ad ogni schermo corrisponde una tastiera. Seguo la mia guida, che prende posto davanti ad uno di essi.

“Vedi, questi servono per capire come raggiungere la stanza in cui vuoi andare. Per esempio, vuoi la lista delle stanze dedicate a temi di chimica? Scrivi qui la parola chiave, chimica, e sullo schermo comparirà un elenco lunghissimo di tutte le stanze che puoi frequentare. Ad ogni stanza corrisponde un piccolo codice di lettere e numeri, che per qualche istante dovrai memorizzare. Accanto ad ogni porta c’è un tastierino, sul quale dovrai riportare il codice. Così, quando attraverserai la porta, ti ritroverai nella stanza che hai scelto. Il posto in cui siamo ora si chiama Home. Per tornare qui e scegliere un’altra stanza, basta scrivere “A1” sul tastierino. Per risalire in superficie invece, basta che digiti l’indirizzo al quale è collocata la tua porta. Ad esempio, quello di casa tua o della scuola. Tutto chiaro?”

“Tutto chiaro.” Confermo.

“Perfetto. Hai due ore di libertà, poi dovrai tornare a casa. Per le prime volte c’è un limite massimo che è meglio non superare. Arrivederci, signorina Pettersson.”

Saluto il funzionario con un sorriso formale. Questo posto è assurdo. Non so bene cosa fare, ma qui sembra tutto molto più caldo. E le pareti non sono grigie, e nemmeno ammuffite, e non c’è il fumo. Le persone vanno e vengono, e sembrano vive. Osservo lo strumento di ricerca davanti a me. Comincio a pensare a qualcosa con cui fare una prova. Le cose di scuola non mi interessano. Partecipare a riunioni di economia, nemmeno. Non si può dire che io abbia una vera e propria passione. Poi ho un lampo di genio: digito un nome.

Alexis Hansen.

C’è un unico risultato: decido di tentare. Memorizzo la combinazione e corro verso la porta più vicina. Inserisco i caratteri e confido nella mia unica possibilità. Attraverso la porta.

Quando la riapro, mi trovo in uno spazio piccolo ma accogliente. Mi metto alla ricerca di qualche indizio che mi confermi di essere nella stanza della persona giusta. Sulla parete di fondo è proiettato un vecchio film che non riconosco. Le altre sono piene di poster e fotografie. Quello più vicino a me rappresenta un gruppo che si chiama “Linkin Park”. Lo dice la scritta sotto l’immagine, ma non ho idea di chi siano. Proprio accanto, ci sono cinque piccole foto una sotto l’altra. Ritraggono un bambino che imbraccia una chitarra. Ed è proprio lui che cercavo.

Alexis è della classe di fronte alla mia, me l’ha presentato Inn. Credo di avere una cotta per lui dalla prima volta che l’ho visto, ma non gliel’ho mai detto. Sapevo che era Maggiorenne. Forse così riuscirò a fare in modo che mi guardi. Mi metto a studiare ogni angolo della stanza. Vedo una pila di libri. In cima leggo il nome di Stephen King. A me non piace molto leggere, ma qui sembra diverso. Ci sono più colori. Qui sembra non sia ancora penetrato il torpore in cui vive il mondo di sopra. Qui tutto sembra avere un senso, l’umanità sembra avere un futuro. Qui c’è il progresso.

“Astrid?!”

La porta si è aperta senza che me ne accorgessi. Alexis mi guarda stupito, in piedi sulla soglia. Cerco di sorridere ma non credo di essere mai stata tanto imbarazzata.

“Ciao.”

“Cosa fai nel mio Sito?” mi domanda avvicinandosi.

“Scusa, non volevo sembrarti invadente. Mi hanno Iniziata oggi, e mi hanno lasciato due ore per girovagare e capire il meccanismo della rete. Così ho pensato di guardare se c’era qualcuno che conoscevo, e ho pensato a te.” Rispondo più sinceramente di quanto avrei voluto.

Lui si passa rapidamente la mano fra i folti capelli castani, e si siede a gambe incrociate. Batte il palmo sul pavimento per invitarmi ad un unirmi a lui. Non ci penso due volte.

“Che vuoi fare?”

“Ormai sei qui, no? Se vuoi ci guardiamo un film, e poi ti porto a fare un giro. Così vedi come funziona questo posto fantastico.”

Sono troppo curiosa. Sono felice. Sono entusiasta. Per la prima volta da quando esisto, sento davvero la voglia irrefrenabile di lanciarmi a fare qualcosa. E lo credo: sono seduta accanto ad Alexis Hansen in una camera segreta sotterranea, e mi sento veramente come se non mi mancasse più nulla. Cos’altro potrei volere?

“Davvero qui è così bello?” chiedo. Ma immagino già la risposta. Mi pulsa nelle vene.

“Meglio di quello che c’è su, sicuro. Puoi incontrare chiunque: i cantanti, gli artisti, gli scrittori, e tutti i loro fan che come te passano giorni a sgranare gli occhi osservando le loro stanze. E poi la gente quando scende diventa più amichevole. Non ha paura di essere giudicata, perché gran parte delle persone che conosci in rete restano in rete. Possono mostrarti il loro lato migliore, e anche tu puoi fare lo stesso. Ti aiuta a sentirti forte, e a coltivare passioni. Ogni cosa che su muore, qui nasce.”

Annuisco. A sette anni ci regalano lo zainetto per andare a scuola, a dieci la bici.

A tredici il futuro.

Mi chiedo con quale forza gli adulti portino avanti un mondo grigio e decrepito, se ne hanno a disposizione uno di scorta più semplice, immediato e appassionante. A cosa serve tentare di mantenerlo? Perché non rifugiarci tutti qui, per sempre, ed essere semplicemente liberi da tutti i vincoli? Timidezza, distanza, giudizi. I tre muri che più allontanano chi vive di sopra. Perché non li abbattiamo lasciando per sempre quel posto?

Mentre il film comincia mi appoggio alla spalla di Alexis. Lui mi guarda dall’alto in basso con occhi calmi. Mi torna in mente la prima volta che l’ho visto. In fondo anche il nostro mondo ha qualcosa di bello. E forse ancora non è destinato a morire.

Solo ora ci penso.

E se stesse appassendo perché lo stiamo abbandonando per questo?

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